introduzione
gli artisti
i medici
i luoghi di cura
il corpo umano
la storia
contatti

Libro cere vive

Still Alive

libro Fiori
whamm
Aurelio Amendola
Ugo Pastorino
Le cere vive di Clemente Susini
Le cere vive
Ugo Pastorino
Ricordare Clemente Susini nel bicentenario della sua morte è prima di tutto una questione di giustizia, nei confronti di un artista che ha dedicato la sua vita allo studio del corpo umano e all’insegnamento dell’anatomia, e ha prodotto un’opera di straordinaria creatività, in molti aspetti irripetibile.
Un lavoro enorme per quantità e qualità, la cui paternità è stata negata fino alla metà del novecento, in favore di altri personaggi autorevoli, primo fra tutti il direttore del Museo di Storia Naturale di Firenze, Felice Fontana.
Da quando entrò diciannovenne nel laboratorio della Specola, come assistente di Giuseppe Ferrini, alla sua morte nel 1814, all’età di sessant’anni, Susini ha prodotto oltre 2000 cere, che illustrano il corpo umano, nella sua totalità o nelle diverse parti anatomiche, per lo più a grandezza naturale, con una precisione delle forme, accuratezza dei rapporti spaziali, verosimiglianza di colori e trasparenze, che non ha eguali nella ceroplastica mondiale di tutti i tempi.
Questo patrimonio artistico e scientifico, creato grazie alla lungimiranza di un sovrano illuminato come Leopoldo II, che voleva migliorare l’insegnamento della medicina, ma anche educare i sudditi del Regno di Toscana attraverso l’osservazione delle regole della natura, suscitò grandi favori ma anche violente opposizioni. E’ difficile oggi comprendere perché l’Accademia Medica di Vienna, e buona parte degli intellettuali austriaci, solo tre anni prima della rivoluzione francese, hanno sdegnosamente rifiutato le 1192 cere del Susini, che l’imperatore Leopoldo II aveva commissionato ad Alessandro Brambilla per lo Josephinum, il nuovo edificio dell’accademia militare di chirurgia di Vienna, bollandole come costosi giocattoli, inutili per la formazione del medico. In realtà, il rifiuto delle opere di Susini esprimeva la dura opposizione della corporazione medica alle idee di Brambilla, che sosteneva la necessità di unificare le discipline chirurgiche e quelle umanistiche nel processo di formazione del medico, ed estentere l'insegnamento del latino come lingua della scienza anche a chi intendeva esercitare la chirugia. D’altra parte, la stessa accademia medica di Vienna, trent’anni dopo la morte di Susini, ha ripudiato anche le fondamentali scoperte scientifiche di Ignazio Semmelweiss, il pioniere della moderna antisepsi, che con i suoi metodi avrebbe salvato dalla morte migliaia di donne colpite da febbre puerperale.
Il progresso della scienza medica è stato, ed è ancora, irto di difficoltà e contraddizioni. Ad esempio, in ambito più strettamente anatomico, la diatriba tra sostenitori della dissezione da cadavere fresco e difensori del modello in cera o altri materiali appare oggi pretestuosa. Basti pensare che nella Firenze del Susini la dissezione dei cadaveri era talmente diffusa che molti dei medici più illustri del tempo, quali il famoso chirurgo e professore di anatomia nell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, Antonio Cocchi, e lo stesso Felice Fontana, donarono il loro corpo a beneficio della scienza, affidando la propria autopsia alla mano dei loro stessi allievi.
Ma le cere di Clemente Susini superano i limiti dell’insegnamento anatomico tradizionale, per entrare a pieno titolo nel campo della creazione artistica. Come per i marmi di Michelangelo, anche queste cere sembrano più vive di un corpo vivente: vasi e muscoli sembrano palpitare, occhi, labbra, e mani mostrano una gestualità che esprime sentimenti autentici, la pelle ha una sofficità e trasparenza che trarrebbe in inganno, se non fosse stata aperta per farci apprezzare il suo contenuto. Qui la scienza medica e l’armonia delle forme naturali, interpretate dal genio di Susini, generano un’opera di altissimo livello artistico.
Lo sguardo di Aurelio Amendola, maestro della luce e della fotografia, ci svela ciò che è difficile apprezzare attraverso le teche di vetro della Specola, anche se è grazie alle regole austere del museo che questi capolavori si sono preservati per più di due secoli.
I particolari in macro digitale, che corredano la seconda parte di questo volume, parlano un altro linguaggio: quello della modernità scientifica di Clemente Susini, e dell’attualità del suo insegnamento inerente la struttura tridimensionale del corpo umano.
Oggi che la tecnologia delle immagini digitali ha sostituito nelle scuole di medicina l’insegnamento dell’anatomia sistematica e topografica, e proprio in Italia si sono drasticamente ridotte le possibilità di esercitazione sul cadavere, i giovani medici finiscono per apprendere la forma anatomica reale attraverso la dissezione “in corpore vivo” del paziente sottoposto a chirurgia, non senza rischi concreti per entrambi.
Spero che questo volume generi in tutti, ma soprattutto nei medici in formazione, una vera curiosità per la storia della medicina, che resta un fondamento della nostra cultura medica, e per la scienza anatomica, alla quale il genio artistico italiano ha fornito un apporto fondamentale. In particolare, chi intende dedicare la propria vita professionale all’esercizio della chirurgia troverà in queste immagini uno stimolo formidabile allo studio del corpo umano, e alla ricerca della perfezione dell’atto chirurgico nel rispetto dell’integrità del paziente.
Nel corso del ventesimo secolo, la chirurgia ha vissuto una profonda trasformazione: le tecniche demolitive, che avevano come obiettivo l'eliminazione della parte malata a qualsiasi costo, si sono sempre più integrate con quelle ricostruttive, nell'intento di preservare non solo le funzioni vitali ma anche il benessere del paziente.
Il chirurgo di oggi deve essere in grado di garantire non solo la sopravvivenza del paziente, ma anche la migliore qualità di vita possibile. Per questo, deve saper utilizzare al meglio le diverse tecniche ricostruttive, che spaziano dal trapianto d'organo, anche da donatore vivente, alla trasposizione di organi da una diversa sede anatomica del paziente, alla sostituzione con parti anatomiche prelevate da cadavere e conservate in banche di tessuti congelati, alla sostituzione con protesi artificiali modellate secondo la necessità del singolo intervento, alle più moderne tecniche d'impiego delle cellule staminali autologhe, prelevate dallo stesso malato, o eterologhe, ottenute da un donatore compatibile. Ci vuole scienza, cuore e fantasia. Di fronte a questa sfida, la lezione di Susini assume una valenza nuova: le sue cere vive ci insegnano che è possibile ricreare la forma del corpo umano, e soprattutto la sua funzione, partendo dai materiali più diversi che la natura e la scienza moderna ci mettono a disposizione. In fondo, c'è una sostanziale relazione e continuità tra l'anatomia artificiale di Susini e l'uso di organi artificiali nella chirurgia contemporanea.
Non solo le immagini, ma anche i testi contenuti in questo volume propongono una visione nuova, e per molti versi originale del ceroplasta, e del ruolo della scienza anatomica nella medicina contemporanea.
Ringrazio il direttore del Museo della Specola di Firenze, Giovanni Pratesi, e del Museo delle cere di Cagliari, Alessandro Riva, per la disponibilità e partecipazione entusiastica a questa opera, che si inserisce in un più grande progetto di umanizzazione dei luoghi di cura attraverso l’arte (www.artemedicina.com).


Gli artisti della cera (Philippe Daverio)
Clemente Susini nasce a Firenze nel 1754, in un Granducato diventato da poco dei Lorena, cioè in sostanza parte di casa Asburgo in quanto Leopoldo, figlio di Maria Teresa d’Austria ne eredita il governo quando lei diventa imperatrice del Sacro Romano Impero e se ne torna a Vienna col marito Francesco Stefano di Lorena. Inizia la dinastia granducale dei Lorena: Firenze torna così nei grandi giochi d’Europa e si realizza il primo sogno teresiano d’una sorta d’unità della penisola attraverso gli apparentamenti con Napoli, Milano e Modena. Sono gli anni nei quali lo spirito della scienza pervade l’Europa, dalla Francia enciclopedica alla nuova filosofia economica della fisiocrazia che reputa che la vera ricchezza delle nazioni si fondi sulla dimensione e sulla salubrità delle popolazioni e della loro forza produttiva, che è sostanzialmente quella dell’agricoltura rinnovata. il casato sostiene ben più che le arti la ricerca scientifica. Diventa il Susini scultore e lo diventa in un campo che lo renderà famoso nel mondo, quello delle cere anatomiche, le quali verranno in parte destinate alla nascente Specola fiorentina, la raccolta scientifica del granducato, ma in gran parte verranno trasportate a dorso di mulo sul finire del secolo fino a Vienna dove andranno a costituire uno dei nuclei principali del Josephinum, il centro di documentazione e ricerca medica che Giuseppe II, figlio e erede di Maria Teresa, aveva fondato dopo essere salito sul trono imperiale nel 1764. La sua fama cresce a tal punto fra gli Stati che il regno sardo piemontese, per l’intercessione del docente di anatomia Francesco Boi, ne farà una ricca raccolta per l’Università di Cagliari, a partire dal 1801.
La tradizione ceroplastica aveva allora raggiunto l’apice del suo sviluppo. Già nel secolo precedente il napoletano Gaetano Zumbo aveva nella capitale toscana portato ai vertici del virtuosismo quest’arte particolare prima di migrare in Francia alla corte di Luigi XIV e le testimonianze che aveva lasciato in Italia erano esempio mirabile per le generazioni successive. La tecnica dello scolpire in cera, anzi del plasmare, era invero praticata sulla penisola sin dall’epoca romana quando serviva a modellare piccole statuine d’uso domestico per lari e penati, e pure per i bambini che ci giocavano. Ma il suo vasto fiorire iniziò sul finire del Quattrocento quando la passione antiquariale per i bronzetti antichi divenne motore per una rinnovata cultura plastica: la cera era allora la prima forma che si dava alla scultura per le fusioni successive a cera persa. E dal manierismo in poi divenne prassi riprodurre alcune delle immagini scultoree più note, dovute spesso ad artisti maggiori, in piccola dimensione. Ecco che la bottega di Giambologna passò a Susini (non il nostro ma Antonio Susini) che fino alla sua morte nel 1624 produsse una formidabile collezione di bronzetti di fattura eccellente. Questi bronzetti fusi appunto a cera persa riscoprivano la tradizione veneta che Andrea Briosco detto il Riccio aveva portato in auge sin dai primi anni quattrocenteschi del Rinascimento.
Sull’altro lato degli Appennini, a Bologna, era sorta attorno all’Università una centrale di studio e documentazione delle Scienze Naturali e della Medicina che a sua volta aveva usato con raffinata abilità la ceroplastica. Si trasforma così la collezione del primo dei grandi naturalisti d’Europa, Ulisse Aldrovandi (Bologna 1522 – 1605) in quella vasta serie di bacheche che sorgono quando Prospero Lambertini, ancor prima di diventare papa Benedetto XIV e corrispondere regolarmente con Voltaire, rilancia ogni tipo di studio scientifico e porta ad insegnare all’Università la seconda donna laureata al mondo, la fisica Laura Bassi, protetta dal medico Gaetano Tacconi. A questi e al suo collega Luigi Ferdinando Marsigli si deve la committenza di gran parte delle ceroplastiche anatomiche dell’Istituto delle Scienze voluto nel 1711 dal Lambertini. Verranno queste opere mirabili realizzate da Ercole Lelli e si trovano tuttora radunate in uno dei più commoventi musei d’Italia.
E’ l’esempio bolognese che contamina il granducato toscano, dove ,ovviamente e in quanto l’ambizione del nuovo casato non può evitare di competere con papato e con impero, le realizzazioni prenderanno un vigore ancor maggiore nell’edificio della Specola. Alla Specola vengono raccolte come cimeli di altissimo valore didattico le opere del più curioso dei ceroplasti, quel Gaetano Zumbo che, ben prima del Lelli, aveva fra il 1691 e il 1695 realizzato per i Medici una serie di teatrini che narravano, sempre in cera, i disastri provocati dalla pestilenza o dal morbo gallico. Poi Zumbo se ne va a Genova e, preceduto da una fama ormai mitica, successivamente a Parigi su richiesta di Luigi XIV, dove giunge a maggio del 1701 per morire sfortunatamente a dicembre dello stesso anno.
Ed è a Firenze ancora, per la medesima Specola, che Clemente Susini, riassumendo la tradizione locale, sommando le tecniche del suo omonimo con quelle dello Zumbo e arricchendole con l’esperienza d’una penisola italica che si cimenta con determinazione nelle scienze, trasforma la prassi ormai consolidata della ricerca in autentici capolavori artistici. Era egli discendente di Antonio Susini, non è dato sapere; che ne fosse uno degli eredi artistici è invece ben più evidente: è dalla qualità attenta della scultura manierista che nasce la grande ceroplastica scientifica. Ma non sarebbe questa nata senza le ricerche mediche dei due secoli precedenti, senza i testi magistrali che Andrea Vesaglio aveva arricchito con le sue incisioni precise e artistiche al contempo, e senza i grandi studi anatomici volti inizialmente al servizio dell’arte rinascimentale, quelli di Leonardo come quelli di Michelangelo.
Le tecniche di Susini (Eleanor Crook)
L’eccezionale maestria tecnica delle cere anatomiche di Clemente Susini presenta una sfida a chi voglia cercare di spiegare i loro metodi di produzione, specialmente perché usano grandi trucchi per nascondere il modo in cui sono fatte. La loro perfezione mimetica cela la percezione delle mani, degli strumenti e dei materiali che han dato loro vita.
Nel 2014 sono stata invitata dal Professor Riva ad effettuare alcune opere di preservazione sulla collezione di cere del Susini a Cagliari ed ho avuto la rara opportunità di osservarle da vicino fuori dalle teche di vetro, di maneggiarle ed e ispezionarle a fondo ed effettuare lavori di restauro conservatori e reversibili. Sono scultore e ceroplasta di belle arti e cere anatomiche con una vasta esperienza dei materiali necessari nelle varie metodologie ceroplastiche e di creazione di calchi; nel corso della mia ricerca ho sperimentato diversi tipi di cera, resine, lacche, pigmenti e solventi, sia antichi che moderni. Ho avuto accesso a questi per via della mia relazione con la British Wax Refining Company dove hanno origine e sono mescolati molti materiali e dove vengono sviluppati e raffinati i tipi di cera da modellare. Non sono una chimica e non mi avvalgo di analisi chimiche, ma ho fatto riferimento alle informazioni presenti negli studi disponibili. Ho lavorato con la storica della ceroplastica e artista Dottoressa Roberta Ballestriero ed ho avuto il privilegio di scambiare idee ed intuizioni con lei, che ha anche documentato le nostre procedure. Spero di fornire qui una descrizione delle proprietà di malleabilità dei materiali usati da Susini e la mia opinione sulle tecniche che ha probabilmente usato, basandomi sull’eccezionale opportunità che ho avuto, grazie all’esperienza di una vita come scultore di cere, di ispezionare e maneggiare le sue cere.
Nel museo, nascosti in piccoli armadietti, c’erano piccoli pezzi di cera usata dal Susini, a disposizione per modellare e rimpiazzare frammenti di cera sbreccata. È probabile che la composizione della cera fosse diversa da modello a modello, secondo i casi, ma era un mix sorprendentemente duro di cera d’api e di una cera cinese più dura sempre di origine insettifera. Persino in una calda giornata del giugno cagliaritano ho dovuto premere e lavorare con le dita questa cera o persino riscaldarla con una torcia ad aria calda per riuscire a modellarla. Mischiato alle cere c’è del sego, dell’olio di sperma di balena (secondo alcune fonti) e persino resina Damar, una resina d’albero come la colofonia usata dai violinisti per creare frizione sugli archetti. Questa è appena visibile, cristallina e lucida, in alcuni punti della cera, specialmente dove degli strati si sono sbriciolati. La resina si scioglie nella cera fusa se mescolata a lungo e dona grande duttilità, malleabilità e resistenza ai cambiamenti di temperatura.
La resina è cruciale per produrre un composto che può essere modellato con le dita in lunghi fili, per rendere resistenti lunghi rotoli, o fili, di materiale e per far sì che la cera si incolli a se stessa quando si assemblano strutture complesse. È anche usata, in modo sottile, come laccatura nella collezione del Susini e probabilmente da restauratori successivi, applicata come lucido o come finitura opaca o satinata. È l’agente responsabile dell’assenza della polvere che irrimediabilmente e quasi irreversibilmente si raccoglie sulle cere.
Il colore di base della cera di Susini è molto pallido, data l’età, se paragonato per esempio alle cere di Anna Morandi; la mia prima impressione al vedere la collezione è stata di stupore per le buone condizioni e stabilità dei materiali dopo così tanto tempo, alcuni traslochi durante la Seconda Guerra Mondiale e le temperature cangevoli ed estremamente variabili della Sardegna. Le moderne cere modellanti disponibili in commercio non offrono una simile stabilità e buona malleabilità. Sentire la resistenza della cera mi ha aiutata a capire le audaci strutture che si incontrano nella collezione, per esempio la cupola del diaframma appesa a mezz’aria e le fasce muscolari in sola cera che si possono rimuovere e che si reggono senza deformarsi.
I colori delle cere – vermiglio per i muscoli, lacca di robbia, blu di Prussia – non sembrano esser state mischiate alla cera come pigmenti in polvere, dato che il colore delle cere è troppo perfetto. Credo, invece, che fossero macinate finemente in una base d’olio, così come i pittori preparavano i loro pigmenti in un olio e li provavano e testavano per durabilità per lunghi tempi. Susini poi le aggiungeva al composto di cera fusa che gli serviva in dosi accuratamente misurate. Per assicurarsi la consistenza del colore tra i vari campioni è essenziale una misurazione precisa del peso degli additivi, specie perché pigmenti di qualità colorano moltissimo la cera già in percentuali minime aggiunte a peso. Per esempio: per ottenere il colore del cioccolato al latte aggiungo alla cera bianca lo 0.9% del peso della cera di pittura ad olio color seppia scura. La tossicità dei pigmenti deve aver inciso in modo significativo sulla salute di coloro che li macinavano e maneggiavano le cere modellanti. Queste sono sorprendentemente stabili da un punto di vista di colore e luce e sospetto che la cera contribuisca a questa stabilità sigillando fuori elementi che la farebbero cambiare da un punto di vista chimico. Il vermiglio delle pitture murali di Pompei si è scurito in presenza di altri elementi, ma il cinabro di Susini è brillante come sempre e, trovo, impossibile da imitare usando altri pigmenti disponibili ora: è una tonalità unica. Il blu di alcune vene, per contro, sembra essere sbiadito da un blu profondo a un turchese; quando ho dovuto restaurare una vena ho dovuto schiarire il blu diluendolo con trementina.
Lo spesso citato resoconto in prima persona del Dottor De Genettes del laboratorio ceroplastico fornisce uno scorcio interessante sui metodi di produzione, anche se si dovrebbe tenere a mente che le procedure erano segrete e facilmente fraintendibili per un testimone abile in una professione simile ma diversa.
“La maggior parte degli organi rappresentati da cere colorate sono realizzati in calchi di gesso formati direttamente sugli organi da riprodurre. I ritocchi finali sono dati da uno scultore esperto che lavora con il cadavere a fianco. Lo scultore lavora sempre sotto la supervisione di un anatomista, dato che anche il più dotato scultore sarebbe incapace di riprodurre la natura accuratamente senza tale guida. Gli organi il cui calco non può essere rilevato direttamente sono modellati in argilla o cera da artisti estremamente abili in questo tipo di lavoro, che copiano direttamente dal cadavere. Poi viene applicato a tali modelli un calco in gesso. Questa tecnica è usata soprattutto per statue o figure intere. Quando si deve realizzare un calco in gesso per una statua anatomica, allo scultore viene prima di tutto commissionato un modello in cera a grandezza naturale. Questo è copiato da un modello vero, nudo e nella posizione in cui l’anatomista trova che gli organi o parti da rappresentare siano in mostra al meglio. Questo primo stadio prende all’incirca sei mesi. Una volta completato, i modelli degli organi individuali devono essere realizzati una volta che ognuno di questi viene dissezionato. L’intero processo deve essere condotto sotto costante supervisione e guida”.
Il procedimento della creazione di un calco, in cui un oggetto passa per svariati stadi con materiali diversi prima che venga generato il pezzo finale da esibire, può essere sconvolgente da concettualizzare e descrivere. Il fatto che De Genettes dica che vengono fatti stampi di organi reali di soggetti sezionati non deve trarci in inganno e farci pensare che i corpi in cera del museo siano una collezione di calchi da esemplari reali. Un semplice primo calco da un organo morto, esangue e in uno stadio di lento deterioramento non avrebbe la superficie carnosa, rotonda e lucida dei corpi del Susini e la forza di gravità agirebbe sulla forma distorcendola e appiattendola. Gli organi di Susini sono presentati come immobili ma non morti, le loro forme sono ancora compatte e rotonde, al posto giusto nel torso come le vedrebbe un chirurgo, non un patologo. Se vogliamo vedere com’è un calco fatto su un cadavere sezionato, ce n’è un esempio al Gordon Museum of Pathology di Londra, eseguito nel diciannovesimo secolo dal ceroplasta Joseph Towne e la consistenza e i tessuti connettivi hanno un aspetto ben diverso, instabilmente fissati da gravità e da un leggero decadimento. Towne si concede anche la sfumatura verdognola dell’inputridimento per rinforzare questo effetto. Il Professor Riva mi ha fatto notare un esemplare di Susini che mostra lo strato di grasso sottocutaneo del cadavere nei primissimi stadi di alterazione post mortem, ma l’effetto è creato dall’osservazione di un occhio esperto e preciso che modella osservando e manipola la consistenza e la laccatura della superficie, non da un calco su un modello reale.
La chiave per capire il testo di De Genettes è: “Gli organi il cui calco non può essere rilevato direttamente sono modellati in argilla o cera”. Direi, anzi, che la maggior parte degli organi sono modellati, scolpiti a mano e non fatti su un calco e che quelli che possono essere stati fatti in tale modo, inclusi alcuni teschi e parti ossute, sono stati rimaneggiati a lungo una volta estratti dal primo calco. In quel periodo e fino a poco tempo fa, uno scultore esperto era in grado di scolpire in modo fedele ogni organo o osso osservandolo, con la stessa facilità e velocità con cui avrebbe realizzato un calco, e anche più facilmente se gli organi fossero stati in fase di deterioramento. L’abilità mimetica ha fuorviato molti che pensavano di trovarsi di fronte a un calco invece che a un oggetto fatto a mano. Tuttavia, per un occhio esperto un calco ha un aspetto leggermente fotografico, meccanico, una relazione di identità con l’originale, mentre una cosa scolpita ha una forma e vita diverse e indipendenti. Ecco perché anche da Tussaud le celebrità sono scolpite, non fatte da un calco: sono repliche, non stampi. Inoltre, anche una conoscenza sommaria del processo dei calchi dimostra che il manufatto ottenuto da una prima generazione di un calco in gesso ha cuciture da stampo e altre imperfezioni, a prescindere dal livello di esperienza dell’artigiano, e ci vuole abilità e lavoro intenso per correggerle. Per esempio, prendiamo in esame lo straordinario fegato in mostra nella figura più grande della collezione di Cagliari.
Ha delle crepe sul lato frontale, il che ci offre degli spunti per capirne la tecnica. Cosi come si presenta, la forma del fegato non può essere il semplice calco di una parte anatomica perché la procedura di calco lo avrebbe schiacciato e appiattito, dal momento che è un organo piuttosto morbido. Possiamo quindi dedurre che sia frutto di osservazione diretta sotto la supervisione di Boi. In quanto scultura fatta a mano, è un capolavoro per forma, definizione della superficie e controllo. Il prototipo di un fegato è stato modellato come entità separata dal resto del corpo in un materiale malleabile –il che apre a varie possibilità, dato che la perfezione mimetica poteva essere raggiunta a quei tempi con argilla, persino legno intagliato, ma più probabilmente con una cera più soffice studiata e fusa dal ceroplasta per creare prototipi che poi servissero a creare il calco negativo in gesso in cui colare la cera più dura del modello finale. Alcuni commentatori suggeriscono che fosse utilizzata una “cera da poco”, ma non vedo perché la cera usata principalmente per modellare prototipi di organi, teste, ed altre parti dovesse essere più scadente o creata in modo meno esperto della cera dura finale. Nel mio studio uso una cera più morbida per i prototipi e una cera più dura per i pezzi da esibizione e apporto variazioni nel materiale secondo il modello e il clima dei diversi progetti.
La parte rotta del fegato mostra che il calco della cera dura è vuoto (per controllarne il peso), spesso più o meno 3-4 mm, come un uovo di Pasqua. La resina Damar nel composto mantiene stabile la struttura. La superficie, opaca, liscia, perfettamente curva, carnosa ed elegante, è uno straordinario esempio di controllo da parte dello scultore –e confesso che farei fatica a raggiungere un risultato simile. La superficie così simile al fegato è stata ottenuta erodendo la cera con cura con della trementina, solvente della cera, su un pennello, come per lucidare il legno con carta vetro e un panno abrasivo; ottenere una superficie che sembra non esser stata toccata con mano o con un attrezzo è, però, un risultato prodigioso. Un complesso strato opaco di lacca di Damar è stato applicato con… non so quale strumento o spruzzo per ottenere una superficie regolare, come se fosse spolverata di cipria, che cattura la luce come se fosse un organo sezionato da poco. Ho contemplato la fattura, in questo caso come altrove, con un senso di vertigini mentre mi rendevo conto del tempo e dell’abilità nascosti nell’ottenere un risultato di tale somiglianza.
Se i modelli sono ricavati da prototipi in cera più molle da cui si deriva un calco, può darsi che la cera più dura venga colata o dipinta nel negativo del calco uno strato alla volta, aggiungendo i colori a strati, come è ben visibile in alcune delle zone di pelle e in alcuni organi. La cera dura riceve una tonalità corporea unica, di solito vermiglio per i muscoli, mentre i vasi sanguigni possono essere dipinti a strati in modo da apparire dipinti sotto la superficie. Più misteriosa appare la fattura dei vasi più lunghi, separati, che si presentano come solidi tubi di cera con ramificazioni e valvole visibili nelle vene. A prima vista si può supporre che fossero rollati come salsicciotti di argilla su lastre appena tiepide, come per fare una pentola a spirale. Dopo aver provato a eseguire questa procedura con scarsi risultati e dopo aver cercato invano un’anima di ferro in questi vasi sanguigni, sono giunta alla conclusione che è stato usato un qualche tipo di strumento da estrusione, di cui credo che ci siano alcune prove documentarie. La fotografia a pagina 87 di Model Experts di Maerker mostra una siringa di metallo che può essere riscaldata su una fiamma o in un bagno di acqua e usata per estrarne un filo di cera calda per formare un vaso sanguigno, così come un abile decoratore di dolci può produrre stringhe di glassa decorative. Le ramificazioni delle vene si congiungono ai vasi principali con giunture impercettibili che devono esser state lavorate a lungo per essere rese così impercettibili, come in una perfetta, minuscola saldatura. Vene e arterie mostrano una sorprendente consistenza, rotondità e lucidatura, priva delle irregolarità trovate su iniezioni di cera da esemplari veri, come faceva Fragonard nel XVIII secolo. Al momento non sarei in grado di replicarle e sono tentata di provare a ricercare e ricostruire la precisa tecnica adottata da Susini per i vasi sanguigni. Il mio restauro reversibile di alcune piccole vene e arterie rotte sul più grande dei modelli cagliaritani è stato uno scrupoloso lavoro di continue correzioni sui miei vasi di cera rollata e minuziosamente scolpita con un bisturi per renderla circolare; cionondimeno, non ha la perfezione meccanica di una vera vena di Susini. Di nuovo, mi inchino alla sua superiorità tecnica.
La tecnica di sottili nervi che si vedono in tutta la collezione è un po’ meno misteriosa, anche se più intricata. Alcuni si erano staccati e pendevano fuori posto, specie sui modelli più grandi, ed ho così avuto modo di ispezionarli. Sono fatti di una cera di colore marrone chiaro lucido in cui erano stati immersi dei fili davvero sottili –non peli o cotone, ma un singolo filo di lino o forse seta (cosa che potrebbe determinare un microscopio o un chimico). Questi sono stati attaccati quando erano ancora malleabili in superficie sulla copertura di laccatura Damar. Nei punti in cui si erano scollati ho visto che si erano solidificati nel tempo e si potevano solo muovere in una direzione per essere rimessi nella loro posizione originale. Così sono stata lieta di poter usare un’autentica laccatura Damar per rincollarli accuratamente nel punto da cui erano caduti. Devono aver richiesto tanta scrupolosa attenzione allo scultore come all’anatomista che li ha tracciati e sezionati.
Uno dei modelli, un teschio a faccia in giù, deve essere caduto a un certo punto e quando abbiamo tolto la teca è stato chiaro che aveva subito estese ricostruzioni ed aveva ancora un grande foro in fronte, di solito nascosto dalla teca. Rotture come questa sono tristi, ma offrono l’opportunità di vedere le strutture interne e danno indizi sulla tecnica usata. La cera del teschio era stata ottenuta in un calco di 3 mm con la stessa procedura usata per il fegato, ed era sottile e traslucida in alcuni punti. Mostra dei dettagli sorprendenti della struttura interna dell’osso, con lo sfenoide e la base del cranio perfettamente realizzati in cera.
All’interno è visibile un materiale opaco fibroso che sarebbe interessante analizzare, ma che può essere una palla di canapa o fibre usata per sostenere la struttura forse durante le riparazioni. Sarà investigato in futuro con un endoscopio. Il dettaglio dell’osso visibile all’interno del cranio solleva alcune domande sul metodo di calco, alle quali è difficile rispondere se sono davvero formate su un esemplare osseo; credo che questo cranio non fosse un calco ma una replica fatta a mano perché un calco non consentirebbe la presenza di dettagli anatomici tanto al suo interno quanto all’esterno.
Per concludere, ho alcune osservazioni sull’aspetto esteriore di corpi e facce e sulle tecniche usate per realizzarli. De Genettes ci dice che il corpo a grandezza naturale è frutto di un lavoro di sei mesi dello scultore, che prevedeva la modellatura con il materiale per il prototipo di un intero corpo o torso, da cui veniva poi creato il calco in cera dura che poteva ospitare le strutture interne sezionate, da inserire e mettere in equilibrio su ferri visibili qua e là. Le facce sono piene di personalità e molte mostrano il momento della morte: un occhio che comincia ad essere vitreo, con quell’opacità che segue la fine, e labbra semiaperte da un ultimo respiro. Sono il lavoro di un ritrattista attento, non di un impressore di maschere mortuarie, come si può vedere bene se si paragonano con il calco di un volto come quelli della collezione dermatologica di Towne, per esempio. La pelle ha una rifinitura giustamente opaca, che contrasta con la laccatura lucida degli organi interni e delle labbra. I capelli sono attaccati non individualmente ma con un tocco leggero di lacca opaca. Le ciglia sono impiantate ordinatamente in forellini sulle palpebre –lavoro per una mano fermissima. La superficie madreperlacea e iridescente delle fasce e guaine tendinee (una grande sorpresa da vedere nei locali di dissezione) è ottenuta grazie ad uno strato sottile di polvere d'oro a 22 carati, ancora visibile in molti modelli. La barba incipiente è ritratta in modo convincente usando un metodo che intendo mantenere segreto (qualcosa deve rimanere segreto!). Le mani sembrano essere formate su calchi, dato che sono identiche d’aspetto e potrebbero essere persino le mani dello stesso scultore, in una mossa sentimentale di presenza personale. Persino un’unghia rotta di un pollice della scultura più grande ci porta vividamente di fronte al momento stesso del calco dell’inizio del XIX secolo.
Rivedendo queste opere nella mia scrittura ora, vorrei davvero aver visitato il laboratorio allora, per impararne i metodi che mi lasciano ancora perplessa: come hanno fatto a estrarre vasi sanguigni perfettamente circolari? Dove finisce il calco e comincia la modellatura? Quali erano le armature e i supporti? Come si conservano svariati galloni di cera sciolta pronta da essere versata tutta insieme, in tempi che precedono l’invenzione dell’elettricità? Come si riscalda uno strumento di metallo senza la fuliggine lasciata da una fiamma viva? E come si fa a fare tutto in modo pulito in un laboratorio in cui sono presenti cera, gesso, argilla, pigmenti e fuochi? Come si sopporta l’odore di putrescenza, materiali velenosi, fiamme vive e fumi tossici per ore in luoghi chiusi? E, soprattutto, come si ritiene una chiara visione di insieme dell’interno di un corpo, per farne una rappresentazione mimetica eppure idealizzata, che mostra varianti anatomiche pur con universalità e perfezione, e che fa sembrare i morti pieni di vita, intricatezza, scorrevolezza e vibrante tensione cellulare? La mia lunga esperienza di ceroplasta mi spinge a meravigliarmi dell’arte di Susini, piuttosto che demistificarla, e per ora mi accontento di ammirarla quando non riesco a dare una spiegazione. Per ora!
Londra, luglio 2014
Ricordi di Via Romana (Michelangelo Galliani)
Sono passati molti anni ormai da quando percorrevo più volte al giorno Via Romana a Firenze. Dopo la maturità artistica si presentò puntuale il dilemma su quale strada intraprendere e così scelsi quella apparentemente più facile, almeno sulla carta: il restauro. Dentro di me ardeva forte il desiderio di plasmare la materia, la scultura si era già timidamente affacciata nelle notti insonni passate a modellare teste e quant’altro. Il restauro però sembrava la scelta più giusta. Soprattutto la più conveniente. Così iniziai come molti a viaggiare e si aprì un mondo che mai avrei pensato si ripresentasse dopo molto tempo. Anche perché quella porta l’avevo chiusa molto bene.
Ricordo la pietra serena dei marciapiedi che percorrevo ogni giorno, le grandi scale del palazzo e le aule affrescate. Erano ben attrezzate per la didattica e tutti aspettavamo i cantieri in esterno che sarebbero iniziati di lì a poco. Ovviamente scelsi restauro dei materiali lapidei che però comprendeva il restauro della scultura in genere. Quando ci proposero un semestre di lavoro presso il museo di Storia Naturale della Specola devo ammettere con tutta franchezza che non sapevo di che cosa si trattasse.
Come già detto, il mio ardore era ben altro e il desiderio di scavare a fondo la materia e di ricavarne qualcosa era forte. Rimasi colpito da quanto vidi nelle sale che mi si aprirono all’interno del museo. Avevo davanti a me la più importante collezione di cere anatomiche al mondo. Peccato che allora non me ne resi conto. Quanto successe dopo fu una conseguenza di quel periodo ma dovette passare molto tempo perché quei giorni e quella esperienza si facessero spazio tra le trame fitte del mio lavoro.
Se chiudo gli occhi, posso sentire ancora il profumo del legno con cui costruirono gli espositori, le tavole del pavimento e la luce che filtrava tra i vetri sottili che proteggevano le cere al loro interno. Ricordo che dalla finestra durante le ore di lavoro guardavo il campanile della basilica di Santo Spirito. Era lì a due passi.
Proprio il legno su cui vennero adagiati questi modelli creò i problemi che eravamo chiamati a risolvere visto che le continue dilatazioni e ritiri dovuti alle stagioni e all’umidità avevano provocato la rottura di alcune cere anatomiche.
Il mio lavoro consisteva nel saldare nuovamente le parti fratturate e colmare le lacune con porzioni di cera opportunamente pigmentata in base alle aree trattate. In alcuni casi più gravi si sceglieva di sollevare l’intero modello dalla superficie lignea sostituendola con una di nuova fabbricazione.
Ricordo però che quello che mi colpì fu proprio la cura non solo della rappresentazione dell’anatomia umana, (frutto senz’altro di una attenta osservazione dal vero), ma un’idea di bellezza capace di scavalcare il senso del dolore trasmesso da ciò che si stava guardando. Una sequenza di American Beauty spiega bene cosa intendo. Nelle scene finali del bel film di Sam Mendes il protagonista muore con un colpo di pistola alla nuca. Il sangue lentamente invade il piccolo tavolo su cui riversa il capo. La figlia e il fidanzato entrano nella stanza ma uno di loro filma per alcuni secondi il lento fluire del sangue rimanendo per un attimo, solo per un attimo incantato dal liquido scarlatto. La visione esula dal significato e si manifesta in una idea di bellezza. Il tempo di un battito di ciglia.
Ho sempre pensato che quelle cere evocassero questo strano equilibrio. Susini riuscì abilmente a coniugare aspetti artistici e formali con un'attenta indagine scientifica, e credo, ma questa è una mia idea del tutto personale, che l’indagine scientifica di quel momento non potesse essere diversa.
Il semestre finì e quel periodo fu per me, a posteriori, uno dei più significativi, tanto che consigliai la visita della Specola in ogni occasione, nonostante la città di Firenze potesse offrire i musei che tutto il mondo conosce. Un altro bel museo quasi sconosciuto, è il Bardini, sul lungarno. Frutto delle collezioni di un vero e proprio mercante dell’epoca che alla sua morte non riuscì a vendere l’intero patrimonio ai musei di tutto il mondo.
Proprio a due passi da quel museo si trova una scultura di Desiderio da Settignano. Un fanciullo in marmo bianco cosi levigato da sembrare appunto cera. Tant’è che divenne quasi una tecnica scultorea dell’epoca. Ora, non posso non pensare ad una correlazione con quello che avvenne dopo. Dopo non praticai mai più una sola ora di restauro. e mi dedicai alla scultura in marmo a tempo pieno. Ormai avevo intrapreso i miei viaggi tra le cave di statuario a Carrara, quasi dimenticandomi dei trascorsi fiorentini e delle mie esperienze alla Specola.
La cera tornò tra le mie mani in tempi recenti e mi ricordai solo allora di ciò che avevo visto molti anni prima. Il profumo della cera calda mi portò immediatamente a quei banchi dove fondevo le cere ai pigmenti puri. Le arterie rosse. Le vene viola. Le pelli di un’ocra scura. Se penso a cosa chiedo a me stesso e al marmo che lavoro ogni giorno è proprio di farlo diventare cera come quello del fanciullo di Desiderio. Questo per dire che quel tempo è ritornato a riprendersi ciò che aveva lasciato. Sono le nuove opere, diverse da quelle del Susini e di Desiderio e da tutte quelle che ho visto e sognato nei lunghi viaggi tra le rovine della Grecia classica.
Credo di aver preso tutto ciò che potevo prendere, di aver saccheggiato quelle stanze in lungo e in largo e di averne fatto tesoro. Solo ora posso affermarlo. Guardando i testimoni di questo tempo. Le mie opere.
Ho scavato palmo a palmo, ho sezionato il marmo a fondo cercando ciò che avevo solo intuito, mi sono lasciato condurre a volte tra le sue cavità e la sua carne. Lì ho cercato e cercato ininterottamente in tutti questi anni l’anatomia sublimata dalla memoria.
La domanda più frequente fra i miei studenti è: come nasce un'opera d’arte? Come funziona il processo creativo? Per rispondere rivolgo sempre la domanda a me stesso poiché molte volte su due piedi non saprei dare una risposta.
Riflettendo posso affermare che ciò che muove l’artista come gli anatomisti del settecento, sia l’atavica curiosità dell’uomo. Nel caso degli artisti questa è sicuramente più disordinata e priva di un metodo scientifico, anzi credo proprio che quel disordine mentale sia quasi necessario alla genesi dell’opera. Ma è sostanzialmente il frutto di un saccheggio costante e ininterrotto di tutto ciò che si vede e si ha attorno. L’opera è la sintesi, l’idea ripulita da tutto che sacrifica il suo autore all’eterna condanna di una nuova germinazione.
Credo nella maestria di Clemente Susini, nella luce di Medardo Rosso e nel dramma di Adolfo Wildt. Credo nelle ombre che divorano i marmi bianchi donando loro la vita.
Le parole di un libro che mi ha accompagnato in quegli anni di viaggi e di studi fiorentini ritornano nitide alla mia memoria.
“Qualsiasi lavoro tu faccia, se trasformi in arte ciò che stai facendo, con ogni probabilità scoprirai di essere divenuto per gli altri una persona interessante e non un oggetto. Questo perché le tue decisioni, fatte tenendo conto della Qualità, cambiano anche te. Meglio: non solo cambiano anche te e il lavoro, ma cambiano anche gli altri, perché la Qualità è come un'onda. Quel lavoro di Qualità che pensavi nessuno avrebbe notato viene notato eccome, e chi lo vede si sente un pochino meglio: probabilmente trasferirà negli altri questa sua sensazione e in questo modo la qualità continuerà a diffondersi.”

(Robert Mc Pirsig, Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta)
San Gregorio, 3 luglio 2014


Il calco del vivo (Diego Scroppo)
Nel dedicarmi all’arte organica ho sempre ricercato, anche attraverso lo studio dell’anatomia e delle tecnologie dei materiali, nuove rappresentazioni del corpo –corpo che immagino, in questa fase della mia ricerca, come manifestazione di un’essere collettivo. Questo essere è formato da altri corpi. E’ un corpo ideale generato dalla fusione di corpi reali. Tra Proteo e Prometeo, questo essere perturbante raffigura il collettivo custode del vuoto spirito e propone una riflessione sul concetto di soglia e di opera d’arte intesa come cornice di vuoto.
Nell’opera Il vuoto e in questo testo che la descrive si può immaginare il tentativo di creare la scultura di un essere del limite, tra l’idea di ibrido e quella di puro. La figura, realizzata attraverso la tecnica life casting, ovvero del calco del vivo, è composta da elementi anatomici provenienti da modelli diversi, porzioni di materie femminili e maschili assemblati . Come un corpo-mondo dove collassano le differenze di genere.
In questo testo parlerò del processo realizzativo della scultura, il quale si sviluppa in due fasi principali: la creazione di calchi del vivente, il life castin,g e la ricostruzione anatomica dei “raccordi” tra questi.
La creazione di uno stampo del vivente è un processo che spinge al limite la tecnica della formatura tradizionale perché la porta a confrontarsi con il soggetto/oggetto vivente da replicare. Quando il modello è vivo sono necessarie attenzioni particolari come l’utilizzo di materiale specifico non tossico e una sapiente gestione dei tempi di lavorazione degli stessi che si riducono ulteriormente in quanto il modello non può stare quasi immobile a lungo. Inoltre, i materiali utilizzati per la formatura hanno un loro “peso” che tende a deformare sempre la carne del modello. Per questo motivo una giusta scelta della posa da calcare (quasi sempre molto vicina alla posizione dell’opera finita) è fondamentale per ottenere una forma finale armonica e verosimile. Formare, per esempio, il volto del modello in posizione orizzontale quando la sua destinazione sarà in posizione verticale sarebbe un errore, si noterebbero imperfezioni.
Per chiarire meglio questo concetto si può prendere come esempio l’intervento sulla zona anatomica intorno all’occhio. La copia di un viso viene generalmente prodotta attraverso il calco di un modello con gli occhi chiusi. Questo perché i materiali utilizzati non possono, per ovvi motivi, restare a contatto diretto con la superficie dell’occhio. Naturalmente l’operazione “calco del vivente” si complica scegliendo di calcare un viso con gli occhi aperti. Eppure è necessario copiare più zona reale possibile intorno all’occhio, fino al limite disegnato dalle ciglia, per evitare di modificare, in seguito, un’area così delicata e così importante per l’espressione della figura. In questa zona è presente un complesso sistema di piccoli muscoli e altri elementi anatomici che producono una serie di variazioni millimetriche in superficie e che caratterizzano la fisionomia di un volto.
I materiali che utilizzo abitualmente per creare i miei stampi dal vivo sono il silicone al platino, per lo strato che copia il modello, e differente materiale di costruzione per il guscio di contenimento del silicone. Ovviamente questa scelta non impedisce di usare ancora quelli tradizionali come gesso e cera, il moderno alginato e tutto ciò che può contenere un’impronta. Il silicone però è più elastico, più leggero e più resistente; ha qualità che permettono di lavorare con più precisione e con meno sprechi perché il materiale “fresco” si lega a quello “secco”, permettendo così di ampliare, in più riprese, le zone da formare. Inoltre è possibile ottenere più copie dalla stessa matrice. E’ una tecnica che ho impiegato anche nel calco di una donna incinta con ottimi risultati.
Nella scultura Il vuoto ho utilizzato cinque diversi modelli di ambo i sessi, due femminili (per il seno e la spalla sinistra con relativi braccio e mano) e tre maschili (per il busto con il braccio destro, la mano destra, la testa e i piedi). I modelli hanno posato tutti nella posizione finale della scultura per sfruttare al meglio le potenzialità della formatura del vivo. La sfida estetica è stata quella di ricavare una figura armonica dalla differenza tra le singole porzioni dei corpi originari. Ricordo che è stato necessario un grosso approfondimento dello studio dell’anatomia umana e di quella comparata, da parte di tutto il mio staff e mia, per capire come meglio “cucire” insieme tutte le parti.
Dopo esser stati calcati dal reale e replicati in gesso, gli elementi anatomici sono stati modificati in ogni zona di contatto. In un secondo tempo queste parti sono state montate su una struttura portante e unite in seguito. Intorno alle “saldature”, in queste zone di passaggio siamo intervenuti con la ricostruzione anatomica. Sulla composizione in gesso è stata disegnata una mostruosa anatomia, con nuove forme di ossa e muscoli, risultato della fusione di corpi diversi in uno solo. Dopo i segni della matita si è proceduto con la scultura e la modellazione delle nuove forme seguendo il bizzarro modello anatomico. Gli interventi più complessi sono stati sulla spalla sinistra, dove s’inserisce il braccio femminile nel torso maschile e il raccordo tra testa e torace. A ricostruzione avvenuta, il nuovo corpo è finito e deforme. La leggera curvatura verso destra del tronco è bilanciata dal gesto verso l’alto della mano sinistra. Le gambe hanno conservato la stessa tensione di quelle del modello di carne, seduto sulla stessa sfera su cui anche la scultura finale è seduta. Correggere l’inclinazione della testa non è stato semplice; il modello umano che ha offerto il torace ha tenuto la propria troppo bassa, forse per la fatica della posa. Questa chimera possiede anche una coda e la continuazione del suo cranio è simile ad una protuberanza organica tentacolare. Le difformità non si notano a prima vista. Solo avvicinandosi appaiono nella loro logica imperfezione.
Il prototipo, costruito in materiali vari, è stato trasformato, durante l’ultimo passaggio “in fonderia”, in una scultura di resina epossidica e polveri naturali. La resina epossidica è un materiale bicomponente di nuova generazione, ottenuto dalla reazione chimica di due fluidi: la resina (base) e l’indurente. La resina solidifica scaldandosi per reazione al contatto con l’indurente. Il rischio, in calchi particolarmente complessi, è dato dai gas prodotti dalla reazione, che a volte non riescono ad uscire completamente dallo stampo e formano delle bolle di vuoto all’interno dell’oggetto finale, e dalle temperature esagerate, che possono alterare le doti tecniche e il colore della resina. Nel caso de Il vuoto, le bolle di gas all’interno della materia sono state considerate e mantenute per il loro particolare valore estetico che fa pensare alla vita della pietra.


Biografia di Clemente Susini (Alessandro Riva)
Clemente Michelangelo F. Susini nacque il 18 dicembre 1754 nel “popolo” di San Lorenzo a Firenze, da Lorenzo Susini e Maria Annunziata Vernaccini, diciassette anni dopo l’estinzione della dinastia dei Medici, regnante Francesco Stefano di Lorena, consorte dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria.
Il giovane Susini avviò presto gli studi artistici, diventando esperto, oltre che nella ceroplastica, nella pittura su vetro, nell’incisione in rame e nella lavorazione della scagliola. Nel 1771 si iscrisse all’Accademia di Belle Arti dimostrando un ottimo profitto; nel 1772 lavorava già nello studio del noto scultore Pompilio Ticcianti (1706-1777), quando fu notato da Francesco Piombanti, segretario delle RR Fabbriche, che lo presentò a Felice Fontana. Questi, che stava allora organizzando, col pieno sostegno del Granduca Pietro Leopoldo, l’officina di ceroplastica del Regio e Imperiale Museo di Fisica e Storia Naturale (detto La Specola), lo assunse come assistente dello scultore livornese Giuseppe Ferrini e aiuto settore.
La tecnica di modellamento delle cere anatomiche era stata introdotta a Firenze nel 1770 da Bologna, ad opera di Giuseppe Galletti (1738-1819), chirurgo dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova. Galletti aveva assunto allora lo scultore Ferrini per la realizzazione di alcuni modelli ostetrici e anatomici che erano stati presto notati da Fontana. Nel 1771, quest’ultimo aveva chiesto al Granduca di finanziare un laboratorio di ceroplastica come parte del museo; Pietro Leopoldo fu dapprima contrario all’idea, avendo disgusto per le pratiche settorie, ma alla fine Fontana riuscì a convincerlo argomentando che una raccolta completa di modelli anatomici avrebbe reso superflua la dissezione dei cadaveri10. Come detto sopra, Fontana, esecutore delle prime dissezioni, ingaggiò proprio Ferrini (malgrado le proteste di Galletti), e successivamente il diciannovenne Clemente Susini, in qualità di secondo modellatore e aiuto settore; assunse poi il dissettore Antonio Matteucci e il pittore Claudio Valvani che, almeno inizialmente, realizzò disegni e tabelle esplicative11. Negli anni successivi vennero ingaggiati altri dissettori, modellisti e lavoranti, alcuni dei quali si dedicarono a compiti specifici come il posizionamento dei vasi sanguigni e linfatici e dei nervi.
La procedura per la realizzazione dei modelli era lunga e complessa. A differenza delle cere bolognesi che di solito contenevano lo scheletro, i modelli fiorentini ne sono privi.
Nel 1775, all’apertura del Museo ben 486 modelli furono esposti in 137 vetrine disposte in sei grandi sale e corredate di disegni a colori e didascalie. Nello stesso anno il Fontana partì per Londra e Parigi su autorizzazione del Granduca Pietro Leopoldo, allo scopo di stabilire contatti coi più importati musei e circoli scientifici d’Europa e di implementare la collezione di strumenti scientifici del nuovo Museo. L’attività del laboratorio continuò anche durante i cinque anni di assenza del Fontana e del suo assistente Giovanni Fabbroni, che mantennero una fitta corrispondenza col Granduca e col Direttore pro tempore Giuseppe Pigri, anche al fine di monitorare il lavoro svolto. Al loro ritorno, la produzione dei modelli fu ancora incrementata con l’assunzione di nuovi collaboratori e il diretto coinvolgimento di Pietro Leopoldo che, appassionato di chimica, preparò e mise a punto nuove vernici.
Nel 1782 Clemente Susini fu nominato modellatore capo in seguito al licenziamento di Ferrini, riconosciuto colpevole di aver truffato il museo per aver sottratto argento alle lamine usate per i modelli. Secondo la stessa fonte, Susini fu costretto dalle minacciose pressioni di Fontana a testimoniare contro il collega. Anche se non si hanno notizie precise a riguardo, risulta che il Ferrini, trasferitosi alla Corte di Napoli, continuò la sua attività presso la locale Scuola di Ceroplastica fondata da Domenico Cotugno (1736-1822), la terza in Italia dopo quelle di Bologna e Firenze.
Prima che Ferrini lasciasse Firenze, Susini aveva collaborato con lui nella realizzazione della famosa statua smontabile di donna gravida in grandezza naturale (1,64 metri di lunghezza) nota in seguito col nome di Venere dei Medici. Questa bellissima cera era stata molto apprezzata da Fontana, che aveva gratificato Ferrini e Susini con una elargizione di Lire 266, soldi 13 e denari 418. Tale statua, replicata per lo Josephinun, fu la prima di numerose altre “Veneri” presenti non solo a Vienna ma anche a Budapest, Pavia e Bologna. Diverse imitazioni, tra cui quelle di Antonio Serantoni (1780-1837), spesso chiamate “Florentine Venuses”, vennero esposte nei musei anatomici a pagamento che si diffusero soprattutto nel nord Europa e in Inghilterra fino alla metà del XIX secolo e oltre: è stato detto che tali esibizioni colmarono un vuoto nella società vittoriana di metà Ottocento fornendo nozioni di educazione sessuale e di biologia della riproduzione, all’epoca assolutamente off limits19. Queste Veneri, come anche le figure maschili in posizione michelangiolesca lodate da Canova, corrispondevano in pieno all’intento di Fontana, condiviso dallo stesso Granduca, di istruire non solo gli addetti alle professioni sanitarie ma diffondere al pubblico le conoscenze anatomiche.
Negli anni successivi al 1782, lavorarono per il Museo come dissettori Paolo Mascagni (1755-1815), noto per gli studi sui linfatici, Tommaso Bonicoli (1746-1802) e Filippo Uccelli (1770-1832).
La maggior parte delle dissezioni era modellata sulle illustrazioni pubblicate dai più famosi anatomisti: Fontana, Mascagni, Scarpa, Cotugno e oltre venti europei, tra i quali va ricordato Albinus (1697-1770), celebre per le sue tavole sull’apparato scheletrico muscolare e sui nervi. Come risulta dalle Filze dei Conti degli archivi di La Specola, dalle affermazioni dell’anatomista Antonio Scarpa e dal fatto che nei modelli sono riprodotte le variazioni anatomiche, tutti i preparati eseguiti a La Specola furono fedelmente copiati dal cadavere.
Nel laboratorio di ceroplastica il lavoro era assai duro, con un impegno superiore alle 8 ore giornaliere e pessime condizioni ambientali per l’uso di sostanze tossiche quali quelle presenti nei solventi della cera e nelle vernici. Secondo Tumiati, ma non ci sono conferme a proposito, il liquido usato per la conservazione dei cadaveri conteneva arsenico, con serie conseguenze per Susini che ne fu gravemente intossicato.
Nel 1780, in seguito alla visita a La Specola di Giuseppe II (1741-1790) di Asburgo-Lorena, fratello maggiore del Granduca Pietro Leopoldo, in compagnia di Giovanni Alessandro Brambilla (1728-1800), suo chirurgo personale e consigliere, l’imperatore austriaco aveva ordinato un tal numero di modelli che Pietro Leopoldo pose il veto alla richiesta sulla base del fatto che avrebbe interferito con l’attività del Museo. La commissione fu poi accettata, sia pure molto a malincuore dallo stesso Fontana, che organizzò un secondo laboratorio nella propria abitazione, assunse molti collaboratori (oltre 200) e fu coadiuvato da Clemente Susini e da Paolo Mascagni, che ebbe il ruolo di supervisore del progetto. Nel lasso di circa un lustro vennero prodotte ben 1192 cere, che raggiunsero Vienna tra il 1784 e il 1788.
Secondo Lemire, i modelli realizzati con stampi originali, tra cui numerosi i preparati di ostetricia, erano in tutto 150, mentre per i restanti furono utilizzati i calchi conservati a La Specola. Lo stesso autore sostiene che, anche se la collezione viennese appare, a prima vista, più grandiosa e appariscente di quella fiorentina, la qualità dei modelli è, nel complesso, inferiore a quelli di quest’ultima. Ciò è probabilmente dovuto all’insistenza con cui l’Imperatore reclamava la pronta consegna della collezione ed al tempo relativamente breve concesso per completarla26. Inoltre, a causa del clima rigido di Vienna, i modelli si deteriorarono e dovettero subire numerosi restauri. Oggi restano 365 vetrine contenenti 867 modelli, di cui 16 sono figure umane intere27. Le cere furono collocate nella Cesareo-Regia medico-chirurgica Accademia Josephina, che fu inaugurata il 7 novembre 1785 con una prolusione dal titolo “La preminenza e l’uso della chirurgia” tenuta dal primo direttore Giovanni Alessandro Brambilla. Esse destarono tuttavia reazioni disparate e furono accettate solo parzialmente dall’apparato medico scientifico della Vienna dell’epoca, che ne criticò l’uso nell’educazione medica negando il supporto pubblico alle anatomie artificiali, considerate alla stregua di soggetti di divulgazione popolare piuttosto che strumenti di educazione medico-scientifica.
Dal 1782 al 1785 Susini, sotto la direzione di Mascagni, realizzò diverse statue di linfatici per La Specola che non sono firmate; tra le 12 dello Josephinum, il solo modello 191 presenta l’iscrizione con la sua firma sotto l’ascella sinistra.
Egli non solo partecipò ai lavori per le cere di Vienna, ma corresse alcuni errori imposti da Mascagni ai ceroplasti per rendere le preparazioni diverse da quelle di Albinus.
Dal 1784 fu affiancato da un secondo modellatore: il suo allievo Francesco Calenzuoli (1769-1849). In aggiunta ai lavori anatomici, realizzò diverse opere di carattere religioso e ritratti di personaggi come il direttore del Museo degli Uffizi Giuseppe Pelli.
Dal 1799 fu assunto dall’Accademia di Belle Arti di Firenze dove insegnò disegno dal vero e ricoprì l’incarico di esaminatore. Nei quarant’anni di lavoro al Museo, egli effettuò o sovrintese personalmente alla produzione di oltre 2000 modelli.
Oltre alle cere anatomiche per la Specola e per Vienna, Susini produsse altri modelli per commissioni pervenute al Museo, ormai divenuto celebre in tutta Europa.
Tra di esse, spiccano le due statue di maschio e femmina (scomponibile) con la preparazione dei linfatici, ordinategli da Antonio Scarpa dell’Università di Pavia, la bellissima testa con preparazione del nervo facciale realizzata nel 1798 per il Museo di Storia Naturale di Parigi, e la collezione delle cere anatomiche realizzate per Cagliari in collaborazione con l’anatomico sardo Francesco Antonio Boi (1767-1850).
La collezione si compone di sole 23 vetrine per un totale di 78 pezzi e quindi, da un punto di vista quantitativo, non può essere confrontata con le collezioni di La Specola e del Josephinum, che contengono centinaia di vetrine con oltre un migliaio di esemplari. La sua particolarità risiede nel fatto che le cere di Cagliari rappresentano la maturità artistica di Clemente Susini e il risultato della sua collaborazione con l’anatomista Francesco Antonio Boi, esecutore delle dissezioni. Inoltre, tutti i modelli sono originali e alcune preparazioni, che sembrano complementari a quelle di La Specola, illustrano invece ulteriori dettagli anatomici mancanti o meno precisi in quella raccolta.
I modelli cagliaritani sono stati realizzati nell’officina del Museo di La Specola di Firenze negli anni 1803-1805 e furono commissionati da Carlo Felice di Savoia, viceré di Sardegna, attraverso Boi, che stava trascorrendo un anno sabbatico nella divisione di anatomia dell’ospedale generale (Arcispedale) di Santa Maria Nuova, diretta da Paolo Mascagni. Nei tre anni in cui lavorò con Boi, Susini, non più sotto la tutela del vecchio Direttore, si trovò libero di esprimere finalmente se stesso: Fontana infatti aveva perso interesse nella supervisione dei lavori in cera, perché impegnato nel suo laboratorio privato alla realizzazione dei modelli smontabili in legno ordinatigli da Napoleone Bonaparte.
È un dato di fatto che i modelli di Cagliari siano più realistici; non comprendono Veneri né figure in posa, ed i volti, veri e propri ritratti, non hanno la “pelle rosea” di quelli di la Specola e dello Josephinum; inoltre, come accade nei moderni atlanti anatomici, non vengono sottolineati gli aspetti macabri del cadavere. Anche la destinazione sembra essere diversa: per i molti riferimenti all’anatomia clinica, i preparati sembrano essere selezionati per dare agli studenti di medicina le informazioni utili alla loro formazione professionale, piuttosto che per rendere l’anatomia più attraente al pubblico o per educare i cittadini.
Le vetrine hanno un cartellino originale con la data e la firma di Susini: un’attestazione di autenticità assente nelle altre collezioni di cere fiorentine, neppure in quelle acquistate per conto dell’Università di Bologna dallo studio di Susini nel 1810.
Oltre a rappresentare un esempio di come l’anatomia può essere trasfigurata in arte, i modelli di Susini-Boi mantengono ancora, due secoli dopo il loro completamento, uno straordinario valore scientifico e didattico.
Malgrado alcuni riconoscimenti, fu solo nei primi anni del secolo XIX che lo status dei modellisti gradualmente cambiò da quello di artigiani a quello di artisti. Nei primi anni di attività della “Officina di Ceroplastica”, Fontana considerava i giovani modellisti come strumenti; solo più tardi, grazie soprattutto a Giovanni Fabbroni (1752-1822), ex assistente di Fontana divenuto poi il suo principale rivale e critico, i modellisti, e Susini in particolare, iniziarono a ricevere il giusto riconoscimento del loro ruolo nella realizzazione delle Cere di La Specola. Tuttavia, Fontana continuò ad essere considerato l’autore dei modelli, come dimostra il dato che, già nel 1848, solo il suo nome viene menzionato nella descrizione della collezione di La Specola fatta da De Renzi.
Successivamente, quando alla fine del XIX e nella prima metà del XX secolo le cere anatomiche persero gran parte della loro popolarità, Susini divenne addirittura uno sconosciuto. Ancora oggi, del resto, le cere della Specola vengono associate al nome di Fontana in tutta l’Europa del Nord.
Il primo saggio storico scientifico che riporta nel titolo il nome di Susini come l’autore delle cere fiorentine fu quello di Luigi Castaldi (1890-1945), anatomista dell’Università di Cagliari, scritto nei primi anni ‘40 e pubblicato postumo nel 1947. Tale studio, ancora oggi acquistabile dall’editore originario, è largamente citato e molto apprezzato: “questo lavoro non è mai stato superato”, scrive Knoefel. Forse è proprio per il fatto di essere conosciute come lavori del Susini e non del celebre Fontana che le cere, considerate opere minori della Scuola Fiorentina, non vennero alienate da Cagliari.
Nell’ultimo decennio prima della morte Susini, oltre agli impegni presso l’Accademia delle Belle arti e al suo lavoro a La Specola, realizzò molte cere anatomiche nel Suo Gabinetto d’Anatomia, come risulta dalla commissione per le 24 cere acquistate a partire dal 1814 dal Professore Alessandro Moreschi (1771-1826) e tuttora esposte al Museo Luigi Cattaneo di Bologna.
È stata recentemente51 pubblicata la ristampa anastatica dell’originale del 1813 di quello che sembra un listino pubblicitario di 44 pagine del “Gabinetto D’Anatomia Umana e Comparata eseguita in cera dal celebre Sig Clemente Susini” che descrive minutamente XIII tavole e una figura di donna gravida giacente e scomponibile in 16 pezzi. Nove tavole sono di anatomia umana normale, mentre la X dimostra i tre casi più frequenti di gravidanza extrauterina; la XI l’anatomia del baco da seta anche nelle fasi di crisalide e farfalla; la XII i nervi di una testa di vitello”.
Negli anni finali della vita, la salute di Susini era ormai compromessa poiché affetto da una malattia cronica, ed altrettanto precarie erano le sue condizioni economiche, come dimostrato dal fatto che dopo la sua morte, avvenuta il 22 settembre 1814, il governo del Granduca Ferdinando III concesse alla vedova, Rosa Pieralli, una pensione di sussistenza in riconoscimento del lavoro da lui svolto per quarant’anni al Museo. Dei tre figli avuti dal matrimonio gli sopravvisse di due anni il solo Angiolo; è stato ipotizzato che la prematura morte dei figli sia stata provocata dal contagio ricevuto dal padre affetto da tubercolosi, contratta nel malsano ambiente di La Specola.
Dopo la sua morte, Susini fu ricordato da un necrologio anonimo apparso sul supplemento della Gazzetta di Firenze del 15 ottobre 1814 e dall’iscrizione fatta incidere in latino dal Conte Girolamo Bardi, al tempo direttore del Museo, sul marmo della sua lastra tombale nel chiostro della SS. Annunziata di Firenze. Entrambi i testi sono riprodotti integralmente da Castaldi che riporta anche, tradotta dal latino, l’affermazione dettata da Gerolamo Bardi: “superò tutti i modellatori in cera e non sarà vinto da alcuno dei posteri”.
Anatomia della bellezza: le Veneri di cera (Roberta Ballestriero)
“Questa vista mi fece un’impressione tale, che stavo per sentirmi male. Per molti giorni mi fu impossibile distrarmene, al punto che non potevo vedere una persona senza spogliarla mentalmente degli abiti e della pelle...” Madame Vigée-Lebrun, E., Souvenirs, 1835-37.
Così la pittrice francese Elisabeth Vigée-Lebrun (1755-1842) reagì, nell’aprile 1792, alla vista del simulacro in cera di una “donna sdraiata a grandezza naturale”, che le fu mostrato da Felice Fontana, direttore del Museo ‘La Specola’ di Firenze.
Nella storia dell’arte della ceroplastica, infatti, appare costante la rappresentazione della figura femminile dissezionata, a volte sveglia, a volte dormiente o moribonda, che mostra, senza pudore, l’interno del suo corpo. Queste realistiche e spesso sensuali statue di donne, in posizione supina, sono presenti in molte collezioni di diversi paesi e frequentemente prendono il nome di Venere anatomica. Una delle caratteristiche, che le accomuna, è la possibilità di rimuovere la parete anteriore del tronco: si tratta, infatti, di statue scomponibili che rivelano gli organi sottostanti e che spesso sono rappresentate in diverse fasi di uno stato di gravidanza.
Il termine generico di ‘Venere’, seguendo la tradizione della statuaria greca, nella storiografia dell’arte è stato applicato a qualsiasi corpo femminile idealizzato, incluso alle figure steatopige della preistoria. Non sorprende, quindi, che questo titolo venga dato anche alle rappresentazioni anatomiche femminili.
Gli esempi più antichi furono registrati principalmente in Italia all’inizio del XVIII secolo, ma le Veneri anatomiche acquistarono notevole popolarità e si divulgarono, nei musei anatomici europei, nel corso dell’Ottocento. Questi musei si convertirono in luoghi in cui conviveva un contesto medico con fini educativi e un ambito di pubblico spettacolo, anche se spesso di carattere artistico, dove si proponeva l’idea di impartire conoscenze, senza grande sforzo da parte dell’osservatore, attraverso una rappresentazione tridimensionale, accurata e realistica della natura. Nelle Veneri confluiva un’evidente bellezza esterna, combinata con il rigore anatomico degli elementi interni del corpo umano.
Alcuni dei primi esempi di Veneri anatomiche furono creati a Firenze, dal 1771, nell’officina di ceroplastica dell’Imperial Regio Museo di Fisica e Storia Naturale (detto “La Specola”) diretta dal Fontana. Nel 1773 entrò nel laboratorio, come secondo modellatore, un giovanissimo Clemente Susini che portò, in seguito, l’arte della ceroplastica anatomica a livelli finora mai superati.
Inizialmente (ed ingenuamente) le cere anatomiche fiorentine furono concepite come una bella, pulita, decorosa, però piacevole, opzione alla dissezione dei cadaveri. Un atlante anatomico tridimensionale privo di sangue, fluidi organici e odori nauseabondi, composto di stupende opere d’arte che, con espressioni dolci e spesso sensuali, ebbe il merito di avvicinare il pubblico all’anatomia, togliendo il macabro disgusto derivante dalla presenza del cadavere. Cosa cara anche allo stesso Fontana il quale, riferendosi al progetto di un’anatomia di legno scomponibile, affermava: “(…)... riusciendo bene, come spero, sarà di una utilità infinita per la più perfetta intelligenza di tutti gli organi del corpo umano, colla quale in pochi mesi si potrà imparare da chicchessia, senza schifo e difficoltà alcuna, l’anatomia nel suo più grande dettaglio...”
La cera fu senza dubbio il materiale più adatto a tale scopo dato che, grazie alle sue particolari e versatili caratteristiche, permette una resa mimetica sorprendente e insuperabile da qualsiasi altro medium. Le figure di cera attraggono o infastidiscono, divertono o mettono a disagio, ma raramente lasciano indifferenti.
La cera, inoltre, fu spesso letta sotto il prisma della sensualità, visto che fu frequentemente associata con il femminile, con la fragilità e in ultimo, con la morte. “Esaminando la rappresentazione delle donne in cera e come cera, è evidente che il medium fu considerato un materiale perfetto per l’interpretazione dei corpi femminili nel contesto medico: corpi che fluttuavano tra il reale e l’ideale, la malattia e la salute, l’educazione e lo spettacolo, la percezione e l’incoscienza, la bellezza e l’orrore.”
Questa caratterizzazione fluttuante, voluttuosa e mortale delle opere di cera, ben si adatta alle Veneri anatomiche policromate; infatti alcune di queste sculture provocarono più di una perplessità, quando vennero esposte al pubblico per la prima volta, essendo fortemente criticate per l’alta componente erotica come, d’altra parte, lo furono, in passato, le statue in estasi della Santa Teresa d’Avila e della Beata Ludovica Albertoni di Gian Lorenzo Bernini. Nel 1977 Zoltan Kádár, infatti, collegava la Venere de’ Medici direttamente alla Beata Ludovica Albertoni nell’espressione ambigua del volto, tra agonia ed estasi. Sosteneva inoltre che, anche accettando il riferimento all’espressione barocca di una bellezza moribonda, le Veneri di cera avessero trasformato la concezione patetica e la composizione di eredità berniniana, in una rappresentazione più serena e più calma, grazie all’influenza in quel momento del primo classicismo. Il Susini, infatti, come artista non poteva non risentire dell’influenza della corrente neoclassica in cui l’ideale predominante di bellezza era quello levigato, raffinato e sensuale delle opere del Canova, suo contemporaneo. Quest’ultimo è facilmente riconoscibile nell’ideale, perfetto e stereotipato, dei volti di cera o nei gesti aggraziati delle mani delle Veneri che sorreggono le trecce di capelli. Kádár comunque, precisava: “Non va poi dimenticato che le statue femminili di cera sono completamente ignude: non ci rappresentano la santità celeste, ma la bellezza voluttuosa.”
Perché, vale la pena ricordare, esistevano due tipi di Venere o Afrodite, almeno per gli umanisti fiorentini del Quattrocento: nel cielo delle idee di un pittore umanista come Botticelli venivano chiamate Venus coelestis, la celeste, e Venus naturalis, la volgare. Le Veneri anatomiche fiorentine del Settecento rientrano chiaramente nella categoria delle Veneri terrene, “volgari”. In alcuni casi, il fine scientifico di queste cere anatomiche era una scusa per rappresentare una bella e sensuale ‘donna moribonda’. Uno degli esempi più famosi è, senza dubbio, la “Venere de’Medici” che tanto turbò Madame Vigée-Lebrun. Fu creata nel 1782 dai ceroplasti Giuseppe Ferrini e Clemente Susini per il Museo ‘La Specola’ di Firenze. Di questa statua, che fu riprodotta in diverse dimensioni e pose, si conservano numerose copie in Italia e in altri paesi (Bologna, Pavia, Vienna, Budapest, Barcellona...) creando una specie d’archetipo di rappresentazione femminile nelle cere anatomiche.
Il titolo Venere de’Medici, giocando sull’ambiguità del termine, fa riferimento tanto all’omonima scultura ellenistica esposta alle Gallerie degli Uffizi di Firenze, quanto al termine medici della lingua italiana. Considerata esempio di perfetta bellezza, di calma ed equilibrata armonia, piena in ogni modo di sensualità, l’opera ellenistica fu il prototipo più illustre di una serie, una Venere pudica, ben conosciuta agli uomini del Trecento e Quattrocento. Inevitabile fu allora, per la Venere anatomica, il riferimento ad una delle opere antiche più famose presenti a Firenze, ai tempi della famiglia dei Medici. Ma mentre la prima è ritratta in piedi, leggermente curvata per cercare pudicamente di coprirsi, la Venere della Specola giace elegantemente adagiata su un letto color porpora, ricoperto da un lenzuolo di seta bordato d’oro. Dalla posa, che ricorda la statuaria classica, traspare equilibrio ed armonia.
Superflui al fine scientifico, preziosi gioielli ed una lunga chioma di capelli castani adornano la statua. Il filo di candide perle possiede una doppia funzione: ornamento di seduzione e simbolo della vanità umana serve, anche, per coprire il taglio sotto il collo. Perché queste Veneri sono, ricordiamolo, scomponibili: il ventre di cera può essere rimosso per ispezionare gli organi sottostanti. Alla fine del processo di ‘dissezione’, scopriamo che la Venere nasconde una gravidanza e nell’utero è presente un feto, ma la diversità tra la sua condizione e l’aspetto esteriore è sorprendente. Non appare nessuna alterazione corporea, tipica della gravidanza. Lo stereotipo presentato è sempre quello di una sensuale, giovane donna, con membra e tessuti sodi e mancanza di grasso corporeo: carne e cera, carne di cera. Una delle motivazioni potrebbe essere l’assenza di informazioni, concernenti i primi stadi della gestazione, non era infatti facile ottenere cadaveri adeguati per la realizzazione di modelli ostetrici ed embriologici e spesso era impossibile sapere se la donna fosse stata incinta. Pertanto, Fontana e gli artisti ceroplasti si affidavano alle illustrazioni e i risultati erano meno accurati dei modelli copiati da cadaveri reali. Nonostante questa spiegazione, altre teorie sono state recentemente presentate, descrivendo, sotto il profilo morfologico, la Venere come: “…una donna non gravida, nel cui utero è stato inserito un feto” suggerendo inoltre che questo corpo femminile idealizzato indica la potenziale capacità riproduttiva; di conseguenza ci troviamo di fronte ad una gravidanza meramente simbolica.
Le cere fontaniane, come scrisse il De Renzi, “...popolarizzarono, per così dire, l’Anatomia, perchè ne tolsero tutto ciò che produceva ribrezzo o disgusto.” Queste rappresentazioni erano dirette sia al pubblico medico-scientifico sia a quello profano, però principalmente maschile. Così si capisce, nelle Veneri, la necessità della pelle, di un corpo incorrotto che si può aprire come una scatola svelando i suoi segreti anatomici, ma che quando termina la ‘dissezione’ può tornare alla sua bellezza originale, per il piacere degli occhi e dei sensi. Una statua che possiede una bellezza apparente, ideale, ma che nasconde un segreto fatto di carne.
Frutto del secolo dei lumi e di un’estetica squisitamente italiana, le caratteristiche stilistiche di queste opere furono pesantemente criticate dalla comunità scientifica inglese, che non vedeva la necessità di rendere, modelli destinati all’ambiente medico e all’insegnamento, esteticamente attraenti. Se confrontiamo, infatti, le cere fiorentine con quelle inglesi dello scultore Joseph Towne (1806–1879) potremo notare che le prime sono “vive”, mentre le altre sono “morte”.
Le cere fiorentine sono comunque esteticamente piacevoli a vedersi, indipendentemente da quel che rappresentano, i corpi sembrano vivi, palpitanti, le statue hanno espressioni dolci, occhi languidi, le Veneri scomponibili hanno lunghi capelli sciolti o raccolti in vezzose trecce e sono spesso adornate da collane di perle; le cere inglesi rappresentano cadaveri.
Le opere di Susini e colleghi, uscite dall’officina ceroplastica fiorentina, hanno tutte gli occhi “vivi”: iridi colorate e bianco del fondo brillante, che danno l’impressione di appartenere a persone vive o al massimo ad un corpo ancora tiepido. Le cere di Towne sono pratiche, crude, reali, il colorito pallido, livido delle carni, l’occhio velato, ormai spento, ci fa percepire di essere di fronte alla perfetta rappresentazione di un cadavere. Lontane dall’espressione languida e sognante delle Veneri, dalle labbra semiaperte che sembrano esalare l’ultimo respiro, le smorfie delle cere inglesi, congelate dal rigor mortis, richiamano l’attenzione sul fatto che i cadaveri destinati alle dissezioni provenivano principalmente dai carcerati o dai condannati a morte.
Con le Veneri fiorentine, invece, ci si sente sempre in presenza di una bellezza in agonia. I modelli femminili in cera sono principalmente rappresentati in posa supina come nei sarcofaghi o nei monumenti funerari. Sostanzialmente le Veneri anatomiche italiane esprimono l’idealizzazione della morte agonizzante di una bella, giovane donna, catturando in questo modo l’essenza dell’Eros e Thanatos.
Anche se le Veneri più famose sono spesso a grandezza naturale, ci sono alcuni casi in cui queste statue vennero realizzate in scala ridotta. A Bologna, infatti, nel Museo di Palazzo Poggi, è custodita una statua di 145 centimetri che per le sue dimensioni minute è conosciuta con il nome di Venerina. Fu realizzata nel 1782 dalla mano del Susini che copiò scrupolosamente il cadavere di una giovinetta, morta da poco. La maestria dell’artista ceroplasta si rivela nella rappresentazione meticolosa del caso clinico sconosciuto ai medici del tardo Settecento. La Venerina è infatti estremamente interessante dal punto di vista anatomico per la causa della morte e per la peculiarità della malattia. Il corpo della Venerina è la fedele rappresentazione di una giovane deceduta durante la gravidanza, con eccezione del cuore e dei grandi vasi sanguigni. Le pareti ventricolari hanno le stesse dimensioni, 32 mm, e uguale spessore, 5 mm. In un cuore normale il ventricolo sinistro è tre volte più spesso che il destro. Solo duecento anni dopo la realizzazione della statua in cera, si è potuto scoprire che la giovane soffriva di una malattia cardiaca congenita e che a causarne la morte prematura potevano essere state un’infezione endocardiaca o un’insufficienza cardiovascolare, provocate dall’avanzare della gravidanza.
Sorprendente è che la causa della morte sia stata diagnosticata dopo due secoli, grazie al modello di cera del suo corpo. Questo dimostra ancora una volta le straordinarie capacità mimetiche della cera che permette l’esecuzione di modelli estremamente fedeli e accurati. Nel caso della Venerina le ridotte dimensioni corrispondevano alla realtà, dato che si ipotizza che Susini abbia preso il calco direttamente dal corpo. È possibile infatti che la malformazione cardiovascolare sia stata la causa di una modificazione della circolazione sanguigna e, conseguentemente, della limitata crescita.
Questa straordinaria alleanza tra medicina e arte la possiamo ritrovare in due casi molto diversi conservati in Spagna, a Madrid e a Barcellona. Nel tardo XIX secolo, questi tipi di preparati anatomici cominciarono a cadere in disuso, essendo diminuiti il loro utilizzo e il loro interesse in medicina, favorendo così la nascita di altri aspetti nell’elaborazione di queste figure: nel caso di Barcellona lo sviluppo della componente erotica mentre, nel caso di Madrid, una interpretazione brutale, quasi espressionista di una figura anatomica. Sono entrambi notevoli esempi di come la vita e la morte si intrecciano in una statua di cera.
Nel Museu d’Història de la Medicina de Cataluña di Barcellona è custodita una Venere Anatomica, realizzata tra il 1830 e il 1850, in un laboratorio italiano o francese. Questo modello in scala ridotta rappresenta una delle ‘deviazioni’ delle preparazioni anatomiche, nel corso dei secoli. E’ una sintesi tra arte e scienza, una forma d'intrattenimento con il pretesto dell’educazione. La curvatura della schiena e gli occhi aperti, l’elaborata acconciatura e i sontuosi gioielli, i seni prominenti e le dimensioni ridotte fanno più riferimento ad un modello sensuale, sessuale, qualcosa di capriccioso, che ad un vero preparato scientifico pedagogico.
Dall’espressione maliziosa di questa Venerina niente è più lontano che la rappresentazione brutalmente realistica di una donna morta di parto, che si trova nel Museo di Anatomia “Javier Puerta”, presso la Facoltà di Medicina dell’Università Complutense di Madrid. La scultura, intitolata Embarazada a término mostra una figura femminile, negli ultimi stadi della gravidanza, abbandonata tristemente su una sedia. Opera dello spagnolo Juan Cháez e dell’italiano Franceschi, fu realizzata sotto la direzione d’Ignacio Lacaba negli ultimi anni del ’700.
Anche se ricorda lontanamente le Veneri anatomiche, sarebbe più appropriato chiamare questa scultura, in cera colorata, l'anti-Venere. L'armonia, l’equilibrio, la bellezza sono completamente scomparse. La cera di Madrid è presentata brutalmente, accasciata piuttosto che seduta, su una sontuosa sedia. Nell’Europa del XVII secolo, infatti, era prassi comune partorire in questa posizione come dimostra una stampa presente nella traduzione Short Introduction to Anatomy (Isagoge breves) del Trattato dell’Anatomia dell’utero di Berengario da Capri.
La testa dell’anti-Venus, (come viene chiamata in spagnolo), con gli occhi chiusi, è reclinata sulla destra mentre le braccia sono abbandonate ai lati del corpo. Non sono presenti gioielli, acconciature o dettagli ornamentali. Il ventre non è rimovibile, l’addome è aperto in quattro parti, come i petali di un fiore, rivelando al suo interno un bambino perfettamente formato. Il modello mostra, con estremo realismo, le caratteristiche tipiche di una donna negli ultimi stadi della gravidanza, il petto ingrossato, le gambe gonfie ed appesantite, i tessuti adiposi. Una scultura che segue, in qualche modo, la tradizione espressionista della cultura tradizionale spagnola. In un paese, noto per le sue sculture di legno iperrealistiche di Vergini dolenti che piangono lacrime vetrose o di Cristi morti dalla pelle blu-verdastra macchiata di sangue, sembra che non ci sia posto per una bellezza ideale, soprattutto nel caso di preparati anatomici.
Julius von Schlosser, parlando nel contesto dello studio della storia del ritratto in cera, definisce proprio la tradizione della scultura spagnola dei secoli XVI e XVII, come rappresentante di un naturalismo atroce, concetto perfettamente applicabile all’Anti-Venere di Madrid.
Indipendentemente dallo stile, dalle dimensioni e dalla provenienza, queste figure femminili aquistarono successivamente connotati negativi, a causa dell’esposizione in musei itineranti, a pagamento, che ne decretarono la fine ‘artistico/scientifica’. Veneri anatomiche, a volte dotate di meccanismo per muovere il petto simulando la respirazione, erano spesso presenti in collezioni come quella svizzera di William Bonardo e sua moglie Lily Binda, attiva fino agli anni Settanta, o nel Grand Musée Anatomique et Ethnologique di Pierre Spitzner (1834 - 1896) che viaggiò in Belgio, Olanda e Francia fino agli anni Sessanta.
Italo Calvino fu uno degli ultimi intellettuali che potè visitare, nel 1980, il Museo Spitzner, ed ebbe modo di osservare un certo sadismo, componente essenziale del mondo proposto da Spitzner: “...di marca diversa da quello più lirico del fiorentino Clemente Susini...”. La sua analisi cinica e spietata della collezione, che sottolinea “...il disagio che dà la cera quando imita il pallore della pelle umana”, conclude sarcasticamente: “Manca solo la voce degli imbonitori e dei ciceroni che - a detta delle cronache - illustravano la “Venere anatomica” smontabile in quaranta pezzi, passando dalla fragranza seducente dell’epidermide al cupo intrico dei vasi sanguigni e dei gangli, al groviglio dei nervi, alla bianchezza dello scheletro.”
Carta e cera per l’iconografia anatomica antica (Maurizio Rippa Bonati)
Il 16 marzo 1792 Leopoldo Marcantonio Caldani, docente di Anatomia dell’Università di Padova, scriveva a Felice Fontana, ormai quasi esclusivamente dedito alle sue creazioni tra scienza e arte:
«[…] chiedo umilmente la grazia di un cuore di legno che si scomponga per comodo privato de’ miei Scolari».
Sappiamo anche che il 15 ottobre dello stesso anno Fontana rispondeva «spero ora di potervi mandare il cuore di legno, perché ho trovato il modo di far lavorare per me» e ancora che il 12 aprile 1793 «il vostro cuore è fatto, ma non potrete averlo che in giugno a motivo delle vernici a copalle [sic]». Purtroppo non sappiamo se e quando il manufatto sia mai giunto a Padova e, a quanto ci risulta, un simile artefatto non fa parte delle pur ricche collezioni di preparati e modelli dell’ex Istituto di Anatomia umana Normale dell’Università di Padova.
In tutti i casi la richiesta di Caldani racchiude più aspetti di interesse.
Caldani, succeduto a Giovanni Battista Morgagni nel 1772, all’epoca del carteggio reggeva la cattedra patavina di Anatomia da vent’anni e sappiamo che era particolarmente attivo nel fornire agli studenti i mezzi didattici più moderni. Del resto sappiamo dalla “Organizzazione generale, piano di studii e discipline per le Università nazionali” del 1802 che una Scuola medica adeguata ai tempi doveva disporre di “preparazioni del cadavere”, “esemplari in cera”, “scheletri”, “preparazioni secche” e “tavole di relativi disegni”.
Probabilmente Caldani scrisse la lettera alla fine del ciclo di lezioni di anatomia pratica dell’anno accademico 1791-92 in quanto, com’è noto, le dissezioni venivano effettuate nel periodo più freddo dell’anno, per favorire un utilizzo ottimale dei cadaveri concessi alla particolarissima operazione. Continuando nella nostra ipotesi possiamo supporre che Caldani intendesse utilizzare il modello di Fontana per mantenere vivo l’interesse degli studenti nel corso delle “letture private” che, al di là del nome, erano lezioni del normale ciclo di studi che si distinguevano dalle “pubbliche” per non essere tenute in latino ma in italiano e in forma discorsiva: lezioni a cavallo tra il ripasso e l’integrazione che, per le discipline scientifiche, veniva ad assomigliare ai moderni “laboratori”.
Fedele alla tradizione padovana del manuum munus resa nota da Vesalio, il cuore in legno scomponibile poteva dunque costituire una interessante variante del terzo momento della lezione anatomica ideale: ascoltare, vedere, toccare.
D’altra parte negli studi di anatomia umana, ancorché normale, la comprensibile variabilità individuale dei soggetti, le oggettive problematiche riguardanti l’esecuzione delle autopsie, e, non ultimo, il fatto che ogni dissezione è un esperimento unico e irripetibile, hanno sempre comportato la necessità di fissare la memoria di quanto osservato utilizzando in primis le parole, ma anche le immagini, i preparati e i modelli.
Un solo mezzo di comunicazione non è, infatti, sufficiente per rappresentare la complessa realtà anatomica in forma adeguata alle esigenze della didattica e della ricerca. È facilmente dimostrabile che le descrizioni verbali sono assolutamente indispensabili – non esistono atlanti privi di apparati critici – ma è altrettanto evidente che le immagini costituiscono un ausilio di primaria importanza: sempre per i neofiti, ma anche per gli specialisti nel caso di deviazioni qualitative o quantitative dalla norma.
Accanto all’iconografia un ruolo importante è svolto dai preparati, reperti organici variamente conservati, e per l’appunto dai modelli anatomici, artefatti inorganici che riproducono in scala 1/1, organi ed apparati. Questa drastica classificazione non esclude che i preparati possano essere completati con particolari, quale ad esempio l’apparato vascolare in cera, e che i modelli spesso includano una “impalcatura”, magari invisibile, in tutto o in parte costituita da ossa.
Il discorso si allarga e si complica con il diffondersi delle moderne metodiche di conservazione e l’avvento delle applicazioni della cosiddetta realtà virtuale. Pensiamo ad esempio alla plastinazione, resa famosa soprattutto dalle creazioni di Gunther von Hagens, nella quale al posto della sottrazione di acqua e grasso prevista nelle antiche metodiche viene operata la loro sostituzione con polimeri e silicone. Pensiamo anche alle immagini digitali tridimensionali quali, in primis, le ricostruzioni create grazie al Visible Human Project partito nell’ormai lontano 1986 sotto l’egida dalla National Library of Medicine statunitense.
È sul termine “realtà virtuale” che vorremmo soffermarci e soprattutto sul significato attuale del termine e sulla sua riferibilità al passato.
Oggi l’aggettivo virtuale e collegato inscindibilmente all’informatica ma, a ben guardare anche il cuore ligneo scomponibile di Fontana costituisce una forma di realtà virtuale, più basilare ma anche più concreta e indubbiamente adatta agli studiosi e agli studianti del XVIII Secolo.
Imboccata questa strada è obbligatorio affrontare altri esempi di questo tipo di realtà simulata: ci riferiamo alle tavole anatomiche a fogli sovrapposti, a quelle immagini multistrato che ci piace definire “anatomie animate”.
Abbiamo accennato che le immagini hanno costituito, e ancora oggi rappresentano, il metodo più utilizzato per la fissazione, la trasmissione e la diffusione delle conoscenze anatomiche.
Per chiarezza consideriamo “immagini” tutti gli elaborati, sia manufatti originali che riproduzioni meccaniche, realizzati su un supporto bidimensionale, sia esso carta o tela.
L’iconografia anatomica deve rispettare tre parametri nella rappresentazione dei corpi e dei singoli organi: le misure, i colori e, non ultimi, i rapporti reciproci tra i numerosi componenti.
È ovvio che l’immagine perfetta è quella che rispetta le dimensioni, le sfumature reali e consente di apprezzare la stratigrafia degli organi contigui. È soprattutto quest’ultimo requisito a rappresentare le principali difficoltà e a suscitare le maggiori curiosità.
Leonardo da Vinci, ad esempio, seppe risolvere brillantemente il problema della spazialità rendendo parzialmente “trasparenti” gli organi soprastanti, con un effetto che anticipa in maniera impressionante le più moderne metodiche di diagnostica per immagini.
Più semplici ma non meno efficaci sono proprio le anatomie animate, che vantano una storia tanto lunga quanto varia e interessante.
Immagini a fogli sovrapposti – flaps per gli anglosassoni – vennero realizzate a partire dalla prima metà del Cinquecento e, dopo notevoli esempi del Sei e Settecento e con un picco significativo nell’Ottocento, affollano ancora oggi gli scaffali delle librerie, soprattutto nei reparti dedicati ai giovani, con opere sempre più colorate, più complesse, più animate.
Se i primi esempi sono costituiti da fogli volanti, realizzati per soddisfare curiosità anatomiche basilari, ad Andrea Vesalio dobbiamo anche il merito di aver incluso questo particolarissimo tipo di immagini nella sua De humani corporis fabrica e nella relativa Epitome, entrambe edite a Basilea nel 1543.
L’idea di fornire figure anatomiche ritagliabili e incollabili su una immagine base venne ripresa da Juan Valverde de Hamusco, ingegnoso imitatore di Vesalio, e immediatamente dopo anatomie animate vennero riproposte, già montate e spesso colorate a mano, nella rarissima opera Das ist Confirmatio Concertationis […] (Berlin 1576) di Leonardt Thurneisser e nella preziosa Ophthalmodouleia das ist Augendienst (Dresden 1583) di Georg Bartisch.
Il XVII Secolo è monopolizzato dalle tante edizioni del Catoptrum microcosmicum […] (Augsburg 1619) di Johann Remmelin e il secolo successivo Nosce te Ipsum, vel Anatomicum Vivum (Frankfurt und Leipzig 1716) di Christoph von Hellwig, un altro libro simbolo che non a caso è una diretta derivazione dell’opera di Remmelin e rappresenta il miglior elemento di passaggio tra Sei e Ottocento, quello che identifichiamo come il “secolo delle anatomie animate”.
Per il XIX Secolo ricorderemo solo la monumentale Anatomie iconoclastique. Atlas complémentaire de tous les ouvrages traitant de l'anatomie et de la physiologie humaines, composé de planches decoupées, coloriées et superposées texte inclus (Paris 1874-1884) di Gustave J. A. Witkowski.
L'anatomia settoria nella formazione del medico (Marco Vitale, Roberto Toni)
“Quante, spesso assurde cose sono state accettate in nome di Galeno”
“L’anatomia dovrebbe essere considerata come il fondamento dell’intera medicina
e quindi la sua premessa irrinunciabile”
Andrea Vesalio, De Humani Corporis Fabrica, 1543
L’insegnamento dell’Anatomia Umana ha da sempre costituito la base di conoscenze stabili ed irrinunciabili per la formazione del medico e di tutte le branche di specializzazione medica, siano esse internistiche, chirurgiche generali o specialistiche. Le conoscenze biologiche di base, l’evoluzione tecnologica strumentale, le applicazioni della diagnostica per immagini, sono diventati strumenti di uso comune anche per il medico di base, trasformando radicalmente il modo di fare diagnosi e richiedendo anche al medico di famiglia competenze anatomiche precise. Ciò non va confuso con la spesso lamentata perdita da parte del moderno medico specialista della semeiotica fisica, un tempo base fondamentale della diagnosi, a favore della diagnostica strumentale: proprio quest’ultima richiede oggi una padronanza del dato anatomico di gran lunga più precisa di quanto non richiesto dalla semeiotica classica.
Alla già consistente esigenza di insegnamento anatomico di base per la formazione del medico e dello specialista, si aggiungono poi i linguaggi strumentali con i quali viene oggi letta l’immagine anatomica, sia essa tomografica, ecografica, angiografica o ricostruita tridimensionalmente a fini diagnostici o spesso interventistici. La grande diffusione, infine, di interventi per via laparoscopica o endovascolare pongono nuovi problemi di aggiornamento, di ricerca e di metodi di insegnamento dell’anatomia umana.
Tutto questo deve necessariamente entrare a far parte del bagaglio culturale e del linguaggio degli studenti di medicina fin dai primi anni del Corso di studi. Lo scopo dello studio anatomico non è di generare radiologi o chirurghi: piuttosto di formare una classe medica che conosca la metodologia anatomica e sappia trasferirla nella pratica clinica; che padroneggi il linguaggio medico, in genere affrontato per la prima volta durante lo studio dell’anatomia; che sappia confrontarsi con la morte, spesso vista qui per la prima volta, cercando il difficile equilibro fra la necessaria freddezza scientifica, l’etica e la compassione, basi fondanti della professione medica.
La lezione pratica sul corpo umano è un momento didattico rilevante nello studio della medicina e dell’anatomia in particolare, e la dissezione anatomica riveste un’importanza fondamentale nella formazione degli studenti e degli specializzandi. Nei Paesi più avanzati sul piano dell’organizzazione didattica, l’esperienza diretta sul cadavere costituisce una tappa obbligatoria nel curriculum formativo del medico.
Lo studio settorio del corpo umano conosce nella storia alterni periodi di divieto e clandestinità, comunque caratterizzati dalla dissezione del cadavere “fresco”, cioè non preservato. Magnifiche tavole anatomiche sono così state disegnate sulla base dell’osservazione diretta, tutte ovviamente bidimensionali. L’esigenza didattica di stabilità dei preparati e di tridimensionalità delle strutture, insieme allo studio anatomico artistico, diede l’impulso nel XVIII secolo allo sviluppo delle tecniche anatomiche ceroplastiche di cui Clemente Susini fu maestro insieme ad altri insigni anatomisti-artisti, come Ercole Lelli e i coniugi Manzolini dello Studium Bononiensis.
L’esercitazione settoria dello studente al tavolo anatomico ha una valenza didattica insostituibile. Infatti, pur essendo la riproduzione in cera e altri materiali delle differenti parti del corpo umano, a scopo modellistico, un patrimonio della tradizione anatomica fin dal XVII secolo, questa pratica non ha sostituito la preservazione delle strutture anatomiche reali, e dei loro rapporti, attraverso tecniche di fissazione del corpo sempre più moderne. In particolare, l’iniezione endovascolare e la perfusione forzata di liquidi fissativi permettono la conservazione del corpo per lunghi periodi di tempo ed un accurato studio anatomico. Oggi la donazione del corpo a fini settori prevede nella maggior parte dei Paesi criteri d'inclusione particolarmente attenti ai rischi (soprattutto infettivo) per gli operatori. L’impiego altresì di basse concentrazioni di sostanze potenzialmente tossiche nei liquidi fissativi ha abbattuto significativamente il potenziale rischio chimico. Si perde però, in siffatte preparazioni, il colore naturale delle strutture anatomiche e la loro consistenza fisica, che in genere aumenta in modo innaturale. Questo rende difficile l’utilizzazione di preparati fissati per l’addestramento più avanzato in chirurgia, dove la consistenza dei tessuti e il mantenimento dei piani di clivaggio rappresentano elementi di grande importanza.
A partire dal 1978, però, si è reso disponibile anche un nuovo procedimento, la plastinazione. Tale tecnica permette di conservare illimitatamente e con impressionante realismo i tessuti e le strutture anatomiche, anche di grandi dimensioni come interi corpi, conferendo rigidità e mantenendone inalterati i colori. Sfortunatamente, la procedura di plastinazione, che comporta la sostituzione dei liquidi corporei con polimeri di silicone o analoghi, non si presta a successive fasi di dissezione o training chirurgico, mantenendo solo un valore statico, puramente dimostrativo. Inoltre, la complessità di questa tecnica è resa evidente dal fatto che la plastinazione di una struttura anatomica, in funzione delle dimensioni, può richiedere anche 12 mesi di lavoro, come nel caso di un intero corpo umano. Va rilevato, infine, che se in origine questa tecnica era finalizzata alla conservazione dei preparati anatomici quale ausilio dimostrativo allo studio del corpo umano, in seguito è stata estesa, con aspetti controversi, alla “produzione” di preparati la cui rilevanza esula dai fini didattici e scientifici.
Ai fini, dunque, della didattica settoria medica non vi è dubbio che la maggiore efficacia sia solo raggiungibile in assenza di qualsiasi trattamento conservativo (eccettuato il congelamento), il che naturalmente ne limita fortemente l’impiego didattico su larga scala. Al contrario la plastinazione fornisce una visione statica delle strutture, peraltro oggi facilmente raggiungibile con semplici software di volume rendering a partire da immagini radiologiche. La tradizionale fissazione del corpo rappresenta ancor oggi la migliore mediazione fra preservazione delle strutture anatomiche e possibilità manipolatoria.
Questo ambito della didattica anatomica mira a fornire, per la prima volta, una base formalizzabile entro la dottrina classica, analoga a quella di cui già da tempo si è dotata la metodologia clinica, con il fine di gestire un ragionamento che miri ad individuare strutture di tipo squisitamente anatomico, senza preoccuparsi del tipo di patologia in atto, che non riguarda il campo dottrinale dell’anatomia umana.
In tale modo la didattica anatomica si pone oltre la semplice esemplificazione ostensiva tra una possibile manifestazione semeiologica, scelta dal docente sulla base delle proprie pregresse conoscenze cliniche, e il riconoscimento mnemonico o visivo del viscere in cui questa è plausibilmente collocabile.
Al contrario, attraverso il comparto didattico che insegni come usare le informazioni anatomiche di base collocate in un problema di valenza clinica, la didattica anatomica si pone quale ponte irrinunciabile per la formazione del medico pratico e delle sue capacità diagnostiche.
Questo corpus metodologico, patrimonio esclusivo dell’Anatomia Umana, ancora oggi troppo spesso confuso con l’utilizzazione di segni e sintomi coinvolgenti un organo o con le tecnologie di indagine, come quelle di immagine, in base alle quali si richiede al discente un semplicistico riconoscimento d’organo, è invece quanto si dovrebbe intendere per Anatomia Clinica, ossia quella conoscenza anatomica al letto del malato (klinikè, appunto) che ogni medico dovrebbe potere utilizzare (e sapere utilizzare) nell’ambito della sua piena professionalità, attraverso l’uso della razionalità e di procedure di ragionamento unanimemente condivise.
Artemedicina.com è uno spazio aperto a chiunque voglia dare il proprio contributo, commentando i contenuti e l'iniziativa in generale, oppure segnalando episodi di particolare interesse a supporto degli argomenti trattati.
commenti@artemedicina.com
segnalazioni@artemedicina.com